Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
Questi versi di Umberto Saba erano spesso citati da Maranzana quando parlava di Trieste. E’ stato molto importante nella sua vita artistica il rapporto con la sua città natale, culla non sempre accogliente e talvolta fonte di delusioni e conflitti con l’ambiente istituzionale, ma anche sorgente continua di ispirazione e di appassionato impegno culturale e teatrale. Tanto da fargli dire in tarda età: “Avevo una malattia che si chiama Trieste. Ma ora sono guarito.”
Pur tardivamente, nel 2006, all’età di quasi ottant’anni, riceve dalla sua città un ufficiale riconoscimento per meriti artistici con la consegna del Sigillo trecentesco.
A Trieste risale la sua primissima regia, nell’estate del 1959, con un esperimento teatrale innovativo per quei tempi. Maranzana mette in scena il testo Agosto in città, adattamento di Formiche di Aldo Nicolaj: all’aperto, in una piazza della cità vecia e con la partecipazione degli abitanti che agiscono uscendo dalle loro abitazioni. Il tema è l’emigrazione dei giovani in cerca di lavoro: la storia di ragazzi che si confessano i loro castelli in aria, i loro sogni irrealizzabili, il loro struggente desiderio di affermarsi come uomini. Purtroppo ancora oggi di grande attualità. Lo spettacolo, molto apprezzato, verrà considerato “uno dei più belli rappresentati a Trieste“.
A Trieste recita al Politeama Rossetti con ottime accoglienze della critica in La maschera e il volto (1967), in Casa di bambola (1974), in Quasi un uomo (1978) , spettacolo dedicato alla tragica odissea del poeta Dino Campana morto quarantasettenne nel 1932, nel manicomio toscano di Castelpulci. “Gabriel Cacho Millet ha drammatizzato questo “ritratto di poeta” come meglio non si poteva sperare. Un testo omogeneo, in cui citazione e invenzione, scorie di vissuto e testimonianza poetica, si fondono e si compenetrano senza alcuno sforzo. […] Quanto al protagonista, Mario Maranzana, […] bisogna vederlo. Con piccoli palpiti del grosso corpo trascinato di sghembo, con la frantumazione di gesti distonici e ammicchii di sguardo, con sobbalzi e alterazioni minime, con andirivieni caparbi dentro fuori sopra sotto il rozzo cavalletto da muratore che costituisce tutta la “povera” scenografia. […] Due ore filate in scena, solo con la solitudine del suo personaggio. Una prova, la sua, di assoluta dedizione e maturità artistica“. (Giorgio Bergamini, Il Piccolo).
Ma Maranzana è vero protagonista nelle stagioni 1981/82 e 1982/83, con spettacoli che andranno in tournée in tutta Italia con grande successo.
Nel 1981 propone un interessante testo di Curzio Malaparte Das Kapital, traducendolo dal francese, per la regia di Franco Giraldi. L’opera, con una lunga prefazione di Maranzana, è stata poi pubblicata nel 1980 nella collana Oscar Mondadori. Il tema è un dialettico confronto fra Karl Marx, immaginato insieme alla famiglia nel periodo dell’esilio a Londra tra miseria e privazioni, ed uno strano personaggio dalla religiosità quasi delirante che gli vive accanto. Maranzana è Marx. Lo spettacolo varca i confini nazionali ottenendo grande successo anche nell’ex Jugoslavia, dove il pubblico assiste con interesse e curiosità all’incarnazione scenica del padre del marxismo. “E’ stata certamente coraggiosa – commenta Francesca Avon su Il Piccolo – la caparbietà con cui Mario Maranzana, protagonista principale dello spettacolo, ha pescato dall’oblio che durava da vent’anni questo testo. […] L’ha tradotto, sfrondato e adattato per questo allestimento del Teatro Stabile. […] Certo che rappresentare uno schema drammatico di questo tipo ha voluto dire affrontare lucidamente il rischio di sconfinare in un didatticismo sin troppo facile, ma alla fine del Das Kapital di Giraldi e Maranzana non ci sono più gli eroi: dramma di passioni, allora. La regia di Franco Giraldi evita cadute nel melodrammatico, e questo grazie alle scene di Sergio D’Osmo per cui il soggiorno dei Marx diventa uno spazio grigio ed essenziale quasi privo di pareti, e soprattutto grazie a Maranzana. Infatti, anche se il suo personaggio è reso attraverso la strada di una totale identificazione fisica e anche se il tono della recitazione si mantiene su un registro naturale e quotidiano, Maranzana non si lascia tentare dal bozzetto di maniera. […] Due ore filate in scena, solo con la solitudine del suo personaggio.
E’ ancora protagonista nella parte di George Danton nell‘Affare Danton di Stanislava Przybyszewska, sotto la direzione del prestigioso regista Andrej Wajda, nello scontro finale tra Danton (Mario Maranzana) e Robespierre (Vittorio Franceschi) nel marzo del 1794. Fra le serate di maggior successo di questo spettacolo vi è quella al Teatro Argentina di Roma, presente anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Il triennio di convivenza con lo Stabile si conclude con un’ iniziativa voluta da Maranzana nell’ambito delle manifestazioni natalizie dell’82. Come registra ed interprete, mette in scena per la prima volta un testo brillante in dialetto triestino di Italo Svevo, Conzai per le feste: una paradossale situazione dai risvolti comici, immaginata in una casa borghese quando, venuto a mancare improvvisamente il personale domestico, la padrona assume, ignara, un gruppo di delinquenti evasi dal carcere che, tutt’altro che pericolosi, dopo alcuni giorni di servizio sotto le grinfie della dittatoriale padrona, vedono il ritorno in carcere come una liberazione. Maranzana interpreta in vestaglia azzurra e pantofole rosa la padrona di casa, mantenendo però la propria voce maschile con effetti di vera comicità. Lo spettacolo, in scena per una settimana, ottiene un enorme successo presso il pubblico triestino. Tra gli spettatori divertiti anche la figlia di Svevo, Letizia Fonda Savio, che si congratula affermando che suo padre avrebbe sicuramente apprezzato molto lo spettacolo.
Con lo spettacolo Bouvard et Pecuchet (1983), tratto dal romanzo di Flaubert, nel quale interpreta il ruolo di Bouvard, si chiude questo periodo artisticamente felice a Trieste. Vi ritornerà solo nel 2002 con Storia delle maldobrie di Carpinteri e Faraguna, spettacolo concepito come evocazione poetica di un mondo e di atmosfere tramite i brani, le poesie e gli anedotti tratti dalla ricca produzione letteraria dei due autori triestini, con citazioni, filmati d’epoca e, tra le altre, immagini ufficiali di Francesco Giuseppe e dell’ultimo saluto della citta’ a Francesco Ferdinando, l’erede al trono ucciso a Sarajevo.
La sua ultima comparsa allo Stabile Friuli Venezia Giulia è invece del 2008, interprete nella commedia La mostra di Claudio Magris, con la regia di Antonio Calenda. Lo spettacolo è ispirato alla vita del pittore triestino Vito Timmel (Roberto Herlitzka), allievo di Klimt, morto in manicomio dopo una vita anarchica e randagia, spesa nel tentativo di sfuggire alle sofferenze. Maranzana recita in modo toccante la parte dell’amico Sofianopulo. Questo lavoro sarà rappresentato anche al Teatro India a Roma. Fra gli spettatori illustri, lo scrittore israeliano Abraham Yoshoua.
Maranzana si occupa di Trieste anche in filmati e scritti. Con il documentario Trieste sotto, prodotto dalla Rai e dall’Istituto Luce nel 2005, intende attirare l’attenzione sulla storia tutta particolare della propria città dal 1943 al 1954 , periodo nel quale è stata sottoposta a tre dominazioni straniere continuando a soffrire, pur finita la guerra, le tragiche conseguenze di queste occupazioni. Il documentario nasce dalla raccolta di documenti, consulenze storiche e testimonianze dal vivo riguardanti un periodo assai poco noto alla maggioranza degli italiani. Maranzana scrive la sceneggiatura e affida la regia al fratello Marino. L’opera viene trasmessa dalla Rai per il Friuli Venezia Giulia e viene vista e molto apprezzata dalla comunità italiana in Australia. Per le testimonianze dirette si reca per due volte in quel paese per intervistare gli emigrati da Trieste e dal Friuli. Dai loro racconti prenderà vita un altro documentario, Un paese agli antipodi, centrato sulle loro difficili esperienze, a volte assai dolorose, ma alla fine superate con coraggio, ed anche il libro Trieste emigrata (Giunti Editore, 2002), ambientato nel 1954, quando ottocento emigranti triestini e profughi istriani decidono di imbarcarsi sulla nave Toscana diretta in Australia. Il racconto li segue per trentasette giorni di viaggio, facendoci conoscere le loro storie, le loro tragedie, la loro rabbia e le loro speranze. Alla fine del volume si incontrano alcuni di loro su un aereo che li riporta in vacanza in Italia, quarant’anni dopo. Ne emerge un quadro di dignità, ingegno e fierezza di questa gente che ha onorato il nome della propria patria d’origine, senza però manifestare il desiderio di tornare a viverci.
Il tema dell’emigrazione è un tema caro all’attore, anche perchè ne è stato toccato personalmente, nei suoi affetti famigliari: le sorelle maggiori Silvia e Laura, che non ci sono più, hanno lasciato la città natale negli anni ’50 per fare fortuna a Las Vegas e a San Francisco; il fratello Franco, laureato in geologia e fisica, ha scelto la via dell’emigrazione negli anni ’60 per toccare il continente australiano e in seguito affermarsi, in una brillante carriera di geologo, in Sud America, in Africa (dove lavora attualmente a Gibuti) e in vari paesi del continente europeo. Ma nei suoi ritorni a Trieste, Maranzana ha trovato sempre ad aspettarlo la sorella Mariella nella sua calda ed accogliente casa, con intatte nel tempo le atmosfere dell’infanzia, quelle stesse ricordate poi con commozione nel suo libro Esilio infantile.
Ma io mi accontento che il mio racconto abbia successo a Trieste. Il che vuol dire il mondo. Il mio.
Il cammino verso Trieste dal teatro alla storia
Di Riccardo Visintin ⋅ 1 novembre 2002
Nell’ambito dello spettacolo Storie delle Maldobrie
Riccardo Visintin (RV): Abbiamo la possibilità di tornare ad occuparci di attori che hanno vissuto Trieste in maniera proprio viva, Mario Maranzana è uno di questi…
Mario Maranzana (MM): Sì, io senza nessun merito sono nato qui, e ci sono vissuto intensamente fino ai ventiquattro anni, poi mi sono trasferito, ma sono sempre tornato.
Tanto io conosco ed amo questa città che ho dedicato ad essa moltissime delle mie attività, sia artistiche che culturali in genere, insomma.
Io ho scritto due libri che hanno — anzi, il terzo è in dirittura di arrivo — come ambiente la Trieste della mia infanzia, perché lo scrittore deve prima fare i conti con il suo passato personale, per poter essere poi libero di parlare del presente e forse inventarsi un futuro, ecco, per questo.
C’è la mania dell’infanzia, ma è proprio vero che nasce tutto nel bambino, e quanto più si riesce a restarci, bambini, tanto più si diventa adulti in maniera serena, io penso.
Allora, naturalmente quando ho fatto cose nel mio mestiere che riguardassero Trieste, ho cercato sempre la via del dialetto o del semi-dialetto.
La prima cosa che io ho fatto tantissimi anni fa — forse addirittura nel 1958 — l’ho fatta in una piazza di Città vecchia, che si chiama Piazza Del Crocifisso, e lì ho trattato un tema che ho trovato in una commedia, ossia il tema dell’emigrazione.
Mi trovo adesso, a settantadue anni, ad aver fatto assieme con mio fratello un documentario sugli emigrati triestini.
Parlando delle Maldobrie: “Maldobrie” sono anche un’espressione del dialetto, molto composita, perché è un dialetto che in realtà non esiste nella città, che i due autori Mariano Faraguna e Lino Carpinteri hanno ripescato nelle loro infanzie istriane e dalmate, nei loro ascendenti, forse… è una bellissima operazione letteraria, secondo me, perché è affascinante per il contenuto di storia paradossale che ha, e soprattutto per l’ambientazione cosmopolita di un mondo di marinai, di mascalzoni, di bugiardoni, di piccoli Ulisse… forse Ulisse è il più grande bugiardo che ci sia mai stato, no?
Omero ha inventato con la poesia il grande strumento per “raccontare balle”, che è tipico dei marineri; io mi permetto questo gioco su Omero che è forse uno dei più grandi poeti mai esistiti, ma per questo sicuramente giustificato nel “raccontare balle”.
E questi marineri raccontano storie bellissime, che gli autori hanno riesumato, altre le hanno ritrattate, altre sono magari barzellette che raccontate attraverso questo dialetto stupendo.
Questo spettacolo è dedicato a loro (Carpinteri e Faraguna, ndr): uno di loro non c’è più e l’omaggio se lo becca tutto uno, al quale però lo spettacolo non è andato bene, perché non ha capito secondo me che noi lo facciamo in un altro modo da come è stato fatto prima.
Siamo tre attori, uno è tra coloro che hanno sempre fatto in teatro le “Maldobrie”, come Carpinteri desidera, mentre due altri attori di largo respiro come Omero Antonutti ed io, che non l’abbiamo mai recitato, l’abbiamo fatto in una maniera nuova, con una sorta di monologhi di vecchi che ricordano poco, ma quello che ricordano è importante. Appunto come la loro infanzia.
È un modo nuovo per raccontare, e secondo me un autore tanto più è grande quanto più riesce a raccontare in modo diverso: se si racconta sempre allo stesso modo il testo non progredisce, non cammina nel tempo, secondo me.
Io sono molto soddisfatto dello spettacolo che produce una grandissima commozione ed allo stesso tempo è tutto da ridere: però secondo me quando uno spettacolo produce sul pubblico la risata insieme ad un brivido di commozione, ha fatto centro.
I triestini non sono facili, né all’una né all’altro: quando questo è avvenuto nelle prime due sere in cui l’abbiamo fatto, è stato anche per noi motivo di commozione vera.
Io amo molto questa città, le mie amicizie fondamentali che sono quelle cominciate, e poi hanno progredito nel mio cuore, dal 1940.
Quindi io ho amicizie di sessantadue anni, e noi ci incontriamo, ci raccontiamo — anche noi vecchi “rimba” — sempre le stesse cose e ridiamo sempre di tutte le “Maldobrie” che noi abbiamo fatto da ragazzi: tante, perché allora si poteva fare, mentre adesso non si può più perché il traffico comanda su tutto. Ma noi eravamo signori delle strade e quindi potevamo fare cose pazzesche.
Tutti mi hanno dato questo riscontro su questo momento di intensa commozione.
“Oh, ma ciò, xè triste” (“è triste”, in dialetto triestino, ndr)… Non esiste tristezza in sé, poiché la tristezza ha sempre un rapporto con un suo interlocutore diverso, che è la risata.
Quindi pensiamo a Charlot: faceva ridere, no? Sì, ma era tristissimo: Totò-personaggio fa ridere, e come uomo era di una tristezza immane.
Fonte: http://www.fucinemute.it/2002/11/il-cammino-verso-trieste-dal-teatro-alla-storia/